Il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, ha commentato la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che ha visto la condanna, in primo grado, di dieci agenti della polizia penitenziaria accusati di avere percosso un detenuto all’interno della struttura carceraria reggiana. Il garante si era costituito al processo come parte civile.
“La sentenza di ieri – sottolinea il garante regionale – pronunciata dalla giudice delle indagini preliminari Silvia Guareschi del Tribunale di Reggio Emilia, in esito al percorso processuale svolto con rito abbreviato, che ha visto la condanna di dieci agenti della polizia penitenziaria autori, in modo tra loro differente, dei reati di falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti e percosse aggravate contro un uomo di nazionalità tunisina, è coerente con un sistema penitenziario contraddittorio e da riformare”.
“I fatti sono noti – prosegue -. Le immagini video in cui si vedono gli uomini della polizia penitenziaria utilizzare metodi non regolamentari nella gestione di un detenuto, spingendosi finanche all’applicazione di un cappuccio alla testa della vittima, percosso e denudato, sono inequivocabili e chiare. La derubricazione in sentenza del reato di tortura è ora oggetto di riflessione che, per forza, deve essere attenta e misurata”.
“L’esito di questo processo – puntualizza Cavalieri – non toglie però il senso alla necessità di consolidare tre riflessioni in modo fermo come sigilli.
Il primo. È dimostrato come sia estremamente difficile che la denuncia di un detenuto giunga a segno o per lo meno diventi oggetto di un’indagine seria, come questa, in cui, così come emerso anche dalle parole del pubblico ministero Maria Rita Pantani, c’è stata la casualità, favorevole al detenuto, di poter comunicare tempestivamente con il proprio legale, Luca Sebastiani del Foro di Bologna, il quale si è recato immediatamente e personalmente dal procuratore capo che ha posto sotto sequestro le videoriprese dei locali oggetto dei fatti. Solo un ammodernamento degli ambienti detentivi e trattamentali, dotandoli di circuiti di ripresa continua e archiviazione durevole nel tempo, può garantire l’emersione di verità che contrariamente cadono nell’oblio. Inoltre, la polizia penitenziaria deve essere dotata di strumenti più tecnologici per la registrazione dei movimenti dei detenuti senza possibilità di revisione dei testi rendendo univoci e inalterabili i verbali.
Il secondo. La polizia penitenziaria, e non solo, purtroppo, rischia di non fare un salto nel futuro se le azioni riprese nei video, prova del processo, non destano sdegno. Poco importa la qualificazione del reato, che comunque c’è stato. Esercitato in gruppo come un branco mosso dal solo istinto contro un essere umano. Tutto questo è superabile solo se una nuova cultura della gestione delle persone sottoposte a misure privative della libertà personale si fa strada nel corpo rendendo celebri gli uomini e le donne della polizia penitenziaria che ogni giorno operano nelle carceri rispettando i diritti dei detenuti e i regolamenti e le tecniche della loro gestione. Gli episodi di festa a cui si è assistito ieri dopo la lettura della sentenza, che ha comunque consolidato delle responsabilità in capo agli imputati e l’innocenza della vittima, che è e resta un essere umano, sono l’esempio di una subcultura che non è conciliabile con chi esercita un ruolo in nome e per conto dello Stato.
Il terzo. Il sistema penitenziario e il suo ordinamento compiono quest’anno 50 anni. Nel corso del tempo i diversi guardasigilli che si sono susseguiti nei diversi governi hanno configurato i vertici dell’amministrazione penitenziaria che si sono trovati a dover gestire i fenomeni sempre crescenti che hanno minato il senso della detenzione: sovraffollamento, povertà, disoccupazione, malattie e recidiva, per citarne solo alcuni. Fenomeni che hanno ancora di più isolato il carcere a quartiere indecente delle città del nostro paese, fenomeni verso i quali cresce oramai il senso di impotenza”.
Esiste una via d’uscita, si chiede il garante Roberto Cavalieri? “Credo sia giunta l’ora – conclude – che gli enti locali e le istituzioni, quella regionale in primis, il mio riferimento, cambino strategia subordinando la sua azione politica a favore delle carceri, a partire dagli investimenti e dai finanziamenti nella cosiddetta area penale, alla imprescindibile necessità del rispetto dei diritti dei detenuti sostenendo in modo differenziato quei contesti dove i manager delle carceri, civili e non, assicurano modalità di gestione della popolazione ristretta che si avvicinino, in particolare per le aree dei diritti fondamentali come istruzione, lavoro, salute e cultura, quanto più possibile a quella delle persone libere. Così come prevede la legge”.