Nella sola provincia di Rimini ci sono oltre 50 persone che stanno scontando la loro pena in una “casa” della Comunità Papa Giovanni XXIII. Un modo per “recuperare” la persona che già presenta un primo risultato: il tasso di ricaduta nel reato è molto basso, il 12% rispetto al 70% di chi resta nelle carceri tradizionali. Un modello alternativo che la Comunità Papa Giovanni XXIII ha “importato” negli anni ’90 dal Brasile dove, dal 1972, sono attive le “carceri senza sbarre” create dall’Associazione per la Protezione Assistenza Condannati (Apac). Al connubio tra queste due esperienze è dedicata la mostra “Dall’amore nessuno fugge. L’esperienza Apac dal Brasile all’Emilia-Romagna” presentata a Bologna in conferenza stampa e inaugurata nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna alla presenza di Emma Petitti, presidente dell’Assemblea legislativa, Giorgio Pieri, responsabile del progetto Comunità educanti per carcerati (Cec) che fa capo alla Comunità Papa Giovanni XXIII, Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti della Regione Emilia-Romagna. Presenti all’inaugurazione della mostra anche la consigliera regionale Valentina Castaldini e Claudia Giudici, garante regionale dei minori della Regione Emilia-Romagna. Testimonial d’eccezione l’attore Paolo Cevoli.
“Il sovraffollamento carcerario è una delle emergenza di questo Paese. L’esperienza della Comunità Papa Giovanni XXIII è fondamentale per il territorio di Rimini e a dirlo sono i numeri: in Italia ci sono 280 persone ospitate in queste forme di comunità per detenuti, di cui 50 a Rimini. Il lavoro della Regione, grazie soprattutto al Garante dei detenuti, ha puntato a investire proprio sulla persona. Ricordo quello che diceva Don Oreste Benzi: ‘L’uomo non è il suo errore‘. Per questo il reintegro del detenuto nella società serve a dare un senso alla pena detentiva”, spiega la presidente Emma Petitti, per la quale “occorre favorire percorsi, anche attraverso la presa di coscienza degli errori fatti, che consentano a questi uomini e a queste donne di riprendersi la propria vita”.
“Questa è una mostra vivente perché racconta la vita di donne e uomini che si sono reinseriti o si stanno reinserendo nella società. La vera mostra è la loro vita. Chi lavora nelle carceri è un eroe, ma il sistema carcerario non funziona: sulle porte delle carceri bisognerebbe mettere un cartello con scritto “Chiuso per fallimento“. Le Comunità educanti con i carcerati (Cec) – evidenzia il coordinatore della Comunità Giovanni XXIII, Giorgio Pieri – sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere che offrono percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto, garantendo sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime, riscatto al reo. L’auspicio è che, anche grazie a questa mostra, possano essere maggiormente conosciute e avere riconoscimento istituzionale e amministrativo, dato che oggi lo Stato non finanzia queste comunità. L’Emilia-Romagna conta nel suo territorio quattro sedi Cec e la Regione: riconoscendone la validità, potrebbe promuoverne il modello. Le Cec in Italia sono una decina e sopravvivono con l’aiuto di volontari e persone che vi si dedicano. Rappresentano, però, un segno di speranza: costituire una rete di comunità sul territorio nazionale per oltre 10mila persone. Ricordiamoci di cosa ci ha detto Papa Francesco: ‘Non c’è santo senza passato e peccatore senza futuro‘”.
Al coordinatore delle comunità fa eco Roberto Cavalieri, Garante regionale dei detenuti: “L’accoglienza delle persone provenienti da circuiti detentivi è la scommessa sulla quale si gioca il futuro di queste persone. Spesso il tema carcere è ritenuto ‘materia di Stato’ invece i territori hanno un ruolo fondamentale nella costruzione della speranza per i detenuti e gli enti locali sono attori strategici. Il tema proposto dalla mostra offre spunti di riflessione per avviare una ‘rivoluzione necessaria’”.
Testimonial dell’evento l’attore Paolo Cevoli: “Sono figlio spirituale di Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Giovanni XXIII, che è stato mio insegnante di religione al liceo. Questa mostra e le storie che racconta dimostrano l’importanza dell’esperienza della Papa Giovanni: dobbiamo disintossicarci, nutriamo male il corpo e lo spirito. Per questo motivo ognuno di noi deve fare un percorso di redenzione”.
Il compito di spiegare il senso della mostra e la realtà delle comunità è stato affidato a Antonio, rieducando in una delle case della Comunità, che ha vissuto in prima persona questa esperienza: “La Comunità mi ha costretto a scegliere, a mettere ordine nella mia vita”.
Attraverso i volti dei detenuti e dei volontari, la mostra esposta in Assemblea legislativa in viale Aldo Moro 50 racconta, numeri e date alla mano, come 50 anni fa il sogno di un gruppo di cristiani brasiliani cambiò l’approccio al carcere e ai carcerati. Oggi in Brasile ci sono 23 Apac e un’esperienza analoga è presente in Italia grazie alla Comunità Papa Giovanni XXIII che ha realizzato le Comunità educanti per carcerati (Cec). Negli anni ’70 un gruppo di cristiani coinvolti nelle attività della pastorale carceraria di San Paolo iniziò a occuparsi intensamente con alcuni detenuti del carcere di São José dos Campos. All’inizio la loro preoccupazione era semplicemente quella di accompagnare i detenuti nella situazione drammatica in cui si trovavano. Ma, preso atto che oltre il 90% di chi finiva in galera non aveva attorno a sé alcuna rete famigliare e l’87% dei detenuti era povero, i volontari decisero di accostare alla misericordia il recupero. Nacque così, nel carcere di São José dos Campos, un piccolo gruppo di volontari cristiani guidati da un avvocato, Mario Ottoboni. Quell’esperienza avrebbe cambiato per sempre le loro vite e quelle di migliaia di carcerati brasiliani: nel 1974 quel gruppo di volontari decise di compiere un ulteriore passo fondando l’Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati, le cui iniziali erano le stesse del nome originale, Apac. Si trattava di un’organizzazione senza fini di lucro, nata per collaborare direttamente con l’Amministrazione penitenziaria nel tentativo di migliorare le condizioni del sistema carcerario. Per la storia di Apac fu decisiva la scelta di un giudice, che affidò loro la gestione di un padiglione di detenuti in regime chiuso nel carcere di Humaita (São José dos Campos). Poco tempo dopo, un altro giudice, questa volta nello Stato di Minas Gerais, propose loro di assumere la gestione addirittura di un intero carcere nella città di Itaúna.
A partire dal 1990 l’esperienza delle Apac viene replicato anche in altri Stati dell’America Latina, mentre nel 2000, in Italia, nascono, grazie a Don Oreste Benzi e alla Comunità Papa Giovanni XXIII da lui fondata nel 1968, le prime case-famiglia per accogliere e seguire dei detenuti.
La mostra “Dall’amore nessuno sfugge. L’esperienza Apac dal Brasile all’Emilia-Romagna” è aperta al pubblico fino a venerdì 13 settembre dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 18. Si possono prenotare visite dalle 12 alle 16 con gli stessi detenuti come guide inviando una mail all’indirizzo alcerimoniale@regione.emilia-romagna.it.
Al tema delle esperienze e delle realtà di recupero dei detenuti alternative al carcere è dedicato il convegno “L’uomo non è il suo errore. Percorsi di rinascita” in programma giovedì 12 settembre, alle ore 16, sempre in viale Aldo Moro 50, a Bologna.
Sono previsti gli interventi di Emma Petitti, presidente dell’Assemblea legislativa, Matteo Fadda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII, Andrea Ostellari, sottosegretario per la Giustizia, Debora Serracchiani, componente della commissione Giustizia della Camera dei deputati, Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti della Regione Emilia-Romagna, Federico Amico, presidente della commissione Parità e diritti dell’Assemblea legislativa, Giulia Segatta, magistrato di sorveglianza a Trento, Giorgio Pieri, coordinatore delle Comunità Cec. Previste, inoltre, testimonianze dei recuperandi delle comunità Cec dell’Emilia-Romagna. Modera il convegno Giorgio Paolucci, giornalista e scrittore.
(Luca Molinari)